di Marco Costanza
Era la mattina del 5 settembre 1939, una bella mattina di fine estate. La seconda guerra mondiale era iniziata da qualche giorno, Hitler aveva invaso la Polonia il 1 settembre, annunciando così il secondo conflitto mondiale, che l’Italia fascista di Mussolini avrebbe dovuto affrontare al fianco dell’alleato nazista.
La Francia e la Gran Bretagna avevano dichiarato guerra a Hitler, l’Italia non avrebbe potuto attendere molto prima di scendere in campo. Così, il Re Vittorio Emanuele III, conoscendo il pericolo che avrebbe corso un reperto straordinario come la Sindone a Torino, contattò il Vaticano a Roma, chiedendo loro aiuto, sul dove nascondere la Sindone.
Anche a Roma avevano paura, anche nelle mura vaticane il reperto non era al sicuro. Il segretario generale del Vaticano, Giovanni Battista Montini, ebbe una grande idea.
Il 5 settembre 1939 Montini provvide a inviare un telegramma all’abate di Montevergine, monsignor Ramiro Marcone, nel quale scriveva laconicamente: «sarebbe desiderata quanto prima sua venuta Roma». Il prelato benedettino si mosse subito, non immaginando neanche lontanamente il motivo di quell’invito così pressante. Montini lo mise subito al corrente, senza tante circonlocuzioni, del fatto che «S. M. Vittorio Emanuele III desiderava affidare al Vaticano la preziosa reliquia della Santa Sindone, già ricoverata nel Quirinale per salvarla dai pericoli dei bombardamenti. La Segreteria di Stato di Sua Santità aveva fatto presente al Sovrano che il Vaticano era ugualmente esposto e in pericolo come il Quirinale, e che Sua Eminenza il cardinale Maglione, Segretario di Stato, personalmente consigliava come sicuro ricovero il Santuario di Montevergine».
In effetti bisogna osservare che la Santa Sede — e in modo particolare il segretario di Stato, cardinale Luigi Maglione — nutriva nei confronti dell’abate Marcone una profonda stima tant’è che, a distanza di appena due anni da questo evento, per la precisione nell’estate del 1941, comunicava al presule benedettino che, su sua proposta, il Papa aveva deciso di affidargli una delicata missione, incaricandolo di recarsi nello Stato indipendente di Croazia in qualità di rappresentante papale con il titolo di visitatore apostolico presso l’episcopato, allo scopo di allacciare rapporti anche con il governo del nuovo Stato balcanico. Il cardinale Maglione, infatti, prima di esprimere il suo parere sul trasferimento della Sindone presso il santuario benedettino, si era recato personalmente a Montevergine, in compagnia del vescovo di Pozzuoli, monsignor Alfonso Castaldo, del fratello sacerdote e di due suoi nipoti, per compiere un sopralluogo e constatare se la zona possedeva i necessari requisiti di affidabilità. Il responso si rivelò favorevole e a quel punto, com’è facile immaginare, l’abate non solo non espresse alcuna obiezione al riguardo, ma rimase lusingato che proprio il santuario fosse stato scelto per custodire, seppur temporaneamente, questa preziosa reliquia.
Presi i dovuti accordi, il 25 settembre 1939, verso le 15 giunsero a Montevergine due automobili della Casa reale, provenienti dalla capitale, con a bordo i due cappellani del re, monsignor Paolo Brusa e monsignor Giuseppe Gariglio, che portavano con loro la Sindone. La reliquia venne collocata sotto l’altare del Coretto di notte — fatto realizzare nel lontano 1632 dall’allora abate Gian Giacomo Giordano per la salmodia dei monaci — mettendola al riparo da occhi indiscreti, dopodiché si procedette a siglare gli atti della consegna ufficiale.
«L’anno millenovecentotrentanove il giorno 25 del mese di settembre — si legge nel verbale di consegna e di deposito temporaneo della Sindone — in esecuzione degli Ordini di Sua Maestà il Re ed Imperatore, comunicata a voce dal Suo Ministro, S.E. il Conte Senatore del Regno Piero Acquarone, e, previa intesa con la S. Sede, esperite pel tramite del Suo Cappellano Maggiore, Mons. Giuseppe Beccaria, in uno dei locali dell’Abbazia Nullius Diocesis di Montevergine (provincia di Avellino) sono intervenuti S.E. Reverendissima il Padre Giuseppe Ramiro Marcone, nella sua qualità di Abate Ordinario della detta Abbazia, Mons. Paolo Brusa, Cappellano di Sua Maestà il Re ed Imperatore, nella sua qualità di custode della SS. Sindone, nonché il Reverendissimo Padre D. Bernardo Rabasca, Priore del detto Santuario, ed il Reverendissimo Mons. Giuseppe Gariglio, quali testimoni per procedere alla consegna di cui qui sotto. Premesso che per misure precauzionali, atteso l’attuale stato politico internazionale, si è riconosciuta l’opportunità di trasferire in luogo più sicuro di quello dove viene abitualmente custodita e venerata la Reliquia della SS. Sindone in Torino, nella sua Cappella omonima dentro il Palazzo Reale, si è scelto all’uopo, per altissimo suggerimento, come luogo che offre le maggiori garanzie di sicurezza e di incolumità, il detto Santuario di Montevergine. E pertanto, dopo essere stata tolta dall’abituale suo luogo la cassetta d’argento contenente la detta Reliquia e disposta in una cassa di legno, chiusa a viti, foderata di tela bianca ricucita all’ingiro e cinta con spago recante ai nodi il sigillo di piombo con le iniziali del Conte Generale Giovanni Amico di Meane, Reggente dell’Amministrazione della Real Casa in Torino, giusta l’analogo verbale del 5 settembre 1939, essa cassa contenente l’insigne Reliquia venne portata a Roma alcuni giorni giorno dopo, 8 settembre, accompagnata dal menzionato Cappellano di Sua Maestà, Teol. Don Giuseppe Gallino, e deposta provvisoriamente nella Cappella detta di Guido Reni dentro il Palazzo Reale del Quirinale. Da qui, il giorno 25 settembre 1939, dopo fattosi il debito riconoscimento della cassa e constatatone l’integrità, essa è stata presa in consegna dal detto Mons. Brusa, custode della SS. Sindone, dal menzionato Gariglio, Cappellano di Sua Maestà, entrambi incaricati dalla Real Casa, i quali in automobile l’hanno portata in questo Santuario per essere temporaneamente e a titolo di deposito quivi custodita».
Allegato a questo documento fu stilato anche un altro verbale aggiuntivo che — come rilevato in precedenza — lascia intendere chiaramente come ormai Casa Savoia, fin dal settembre del 1939, fosse persuasa dell’imminente entrata in guerra dell’Italia e temesse che, prima o poi, ci sarebbero state delle pericolose incursioni aeree che avrebbero potuto seriamente compromettere l’incolumità della sacra reliquia. Per ovviare a questo inconveniente, sebbene la cassa fosse stata collocata in un luogo sicuro nel muro maestro alla profondità di 88 metri quasi a ridosso della montagna, per maggior precauzione si stabiliva che l’abate Marcone, in caso di pericolo imminente, «data la potenza formidabile di esplosione di certe bombe», avrebbe potuto, di sua spontanea volontà, trasferire la cassa nella galleria artificiale, profonda circa 145 metri, scavata nella roccia viva che distava appena un centinaio di metri dal Coretto di notte, alla quale si poteva accedere attraverso il corridoio del monastero senza esporla al pericolo di dover uscire all’esterno del santuario. Per ovvi motivi, la Sindone fu tenuta lontana da occhi indiscreti e custodita nel più stretto riserbo al punto che, ufficialmente, erano al corrente della sua presenza soltanto l’abate Marcone, il priore dom Bernardo Rabasca, il vicario dom Anselmo Tranfaglia, il superiore “invernale” del santuario e il padre sacrista che s’impegnarono «a conservare gelosamente il segreto». Nel frattempo, a Montevergine, nonostante lo scrupoloso riserbo, col quale i monaci custodivano la Sindone, si verificò in quei giorni un episodio che, come scrisse il padre Federico Renzullo, a quel tempo ospite del monastero, rischiò di mettere alcune persone sulla pista giusta per scoprire la preziosa reliquia. «Un giorno a Montevergine — scrive sul filo della memoria lo stesso sacerdote — [fu] un tramestio inconsueto, un andare affannoso avanti e indietro, un bisbigliare sommesso e misterioso. Ma nessuno seppe in quel giorno rendersi conto del singolare avvenimento». Quindi, dopo aver accennato a coloro i quali erano al corrente del segreto, continuava: «Intanto un vecchio sacerdote, il Can. Paolo Brusa, custode della S. Sindone, che era giunto improvviso sul monte, aveva voluto celebrare la S. Messa all’Altare della Cappella del Coro di Notte. I monaci, intuito il mistero, anche da questa celebrazione in luogo insolito, cor[sero]al Messale, svolg[endo] i fogli (…) Il vecchio prete aveva celebrato la Messa propria della S. Sindone. Avevano carpito il grande mistero. Ma l’intuizione che tra quella Messa celebrata in luogo così insolito e il grande mistero da scoprire ci dovesse essere un qualche evidente rapporto era loro balenato alla mente dalla osservazione commossa delle molte copiose lacrime che il sacerdote aveva versato durante tutto il tempo della celebrazione del Sacrificio».
Recentemente è stata avanzata una suggestiva ipotesi secondo la quale il trasferimento della sacra reliquia a Montevergine fu disposto, in realtà, per impedire che finisse nelle mani del Führer che, fin dalla sua visita in Italia del 1938, aveva sguinzagliato i suoi uomini per scovare la preziosa reliquia e trafugarla allo scopo di assecondare le manie esoteriche che condivideva con Himmler e molti altri gerarchi nazisti, come paventava lo stesso arcivescovo di Torino, il cardinale Maurilio Fossati, in un testo pubblicato nel novembre del 1946 sul bollettino ufficiale della Curia sostenendo che anche se il sacro telo fosse stato «rispettato dalle bombe, non sarebbe forse stato rispettato dall’invasore che si affrettò a chiederne notizie».
Era noto, infatti, che reliquie tradizionalmente connesse con la Passione di Cristo facevano gola a Hitler al punto che, in seguito, riuscì a impossessarsi della Lancia di Longino custodita nel Tesoro imperiale di Vienna, incaricando il colonnello delle ss Otto Rahn di cercare persino il Santo Graal. Tuttavia, l’improvvisa irruzione nel settembre del 1943 all’interno del santuario di Montevergine delle truppe naziste, va piuttosto interpretata come una normale perquisizione. Se infatti i nazisti fossero stati davvero convinti di aver fiutato la pista giusta per ritrovare la Sindone di certo non avrebbero esitato a mettere a soqquadro l’intero complesso monastico per trafugarla.
In realtà, come attesta anche il solerte cronista benedettino, poiché il 14 settembre 1943 i caccia bombardieri b–26 americani avevano sganciato sulla città di Avellino varie decine di bombe di medio calibro, i militari tedeschi sul far della sera vedendo dei riflessi di luce che partivano proprio dal santuario, subito si precipitarono a Montevergine immaginando che quelle fossero delle segnalazioni a opera di qualche spia che si celava all’interno del monastero, mentre si trattava semplicemente dei riflessi lunari sui vetri delle finestre. Alle 23 giunse improvvisamente a Montevergine un’automobile con a bordo alcuni militari tedeschi i quali, poiché il portone esterno era sbarrato, suonarono insistentemente il campanello.
Nel frattempo i due padri che erano di vedetta sull’Osservatorio si accorsero dell’insolita visita e subito corsero ad avvertire il superiore, visto che l’abate si trovava ancora in missione a Zagabria. Così, ancora ignari di quanto stava loro per accadere, i monaci si precipitarono ad aprire. Furono accolti dai tedeschi con i fucili spianati. I soldati fecero intendere di aver visto dalla pianura dei minacciosi riflessi di luce a Montevergine, per cui avevano pensato che tra le mura del monastero benedettino si nascondessero delle spie; aggiungendo con un tono che non ammetteva repliche: «Noi già volere sparare (…) ma noi essere buoni e quindi avvertire. Luce essere là e così dicendo indica[rono] l’Ospizio Nuovo. Là vedere altra volta luce, già puntato cannoni, sparare!».
A distanza di pochi giorni, il 20 settembre successivo, altri quattro tedeschi si presentarono al santuario con l’intento di perquisire i locali. A ogni modo, dopo essersi «affoga[ti] in quattro bicchieri di ottimo vino» ripresero la strada del ritorno. Poco dopo ne giunsero altri sempre in cerca di qualcosa di cui impossessarsi. Tuttavia, il loro bottino fu magro, poiché non riuscendo a trovare granché, si dovettero accontentare di alcune sigarette. Comunque, nonostante ciò, il segreto non trapelò. I numerosi pellegrini che affluivano al Santuario non nutrirono il benché minimo sospetto che in quel luogo fosse custodito il sacro lenzuolo.
Alla fine della guerra, dopo il referendum istituzionale e la proclamazione della Repubblica, il 28 ottobre 1946, come disposto dalla Real casa, la Sindone fu riconsegnata al cardinale Fossati che, accompagnato da monsignor Brusa, giunse a Montevergine «per riportarla, sempre in forma riservatissima, nella sua cappella in Torino».